lunedì 14 aprile 2025

Cosa ha reso Putin così feroce, la sua storia dall'inizio: i ratti di San Pietroburgo, il kuzushi e gli anni da spia nel Kgb

@ - La carriera fulminante dello zar comincia con la fine dell'Urss, grazie a una fitta rete di relazioni con personaggi influenti (la cricca di San Pietroburgo). Ma le radici della sua «cattiveria» sono da ricercare nell'infanzia.


Questo articolo è un estratto di Nella mente di Putin, la guida di Marco Imarisio uscita gratuitamente con il Corriere della Sera.

Chi è davvero Vladimir Putin, quale è stato il suo viaggio? Chissà perché, ma a ben vedere la spiegazione appare evidente, quasi tutte le sue biografie danno grande risalto a un episodio in apparenza insignificante, raccontato da lui, e da alcuni testimoni oculari, veri o presunti. La «kommunalka», l’appartamento comunitario di San Pietroburgo dove viveva da bambino, era in un edificio infestato dai topi. Lui e i suoi amici li inseguivano nel cortile con i bastoni.

Un giorno, un grosso ratto che era riuscito a intrappolare, reagì attaccandolo con rabbia, facendogli prendere quello che considera ancora oggi lo spavento più grande della sua vita. «Nessuno deve essere messo all’angolo» ripete sempre accompagnando il racconto di quel lontano episodio. «Nessuno deve essere portato fino al punto di non avere più vie d’uscita». Perché diventa ancora più cattivo, e pericoloso. Ecco la ragione dell’importanza simbolica attribuita a quell’aneddoto.

È il suo metodo. Con lui è sempre stato così. Quando tutti lo ritengono con le spalle al muro, isolato, in difficoltà, alza la posta. Attacca sempre, proprio come fa il suo nuovo amico americano, Donald Trump. Con caratteri così simili e così particolari, in Russia hanno molti dubbi che l’idillio tra Cremlino e Casa Bianca possa durare a lungo.

La famiglia Putin
Ma torniamo a San Pietroburgo. Il 7 ottobre 1952, quando ci nasce Vladimir Putin, si chiama ancora Leningrado. È la città martire del grande assedio durante la Seconda guerra mondiale. La madre Maria e il padre Vladimir vivono quei terribili novecento giorni, ci perdono anche un figlio, Viktor, che muore a cinque anni di difterite, anche a causa dell’impossibilità di curarsi.

Il papà del futuro presidente viene assegnato a un battaglione dell’NKVD, la ex Ceka, che poi diventerà Kgb. È incaricato di operare dietro le linee nemiche dei nazisti. Ferito a una gamba, si rifugia in un canale pieno di fango e si nasconde sotto l’acqua gelata sfuggendo così a una pattuglia tedesca. È un episodio che Putin figlio racconta spesso, anche nella sua autobiografia ufficiale, dal quale si fa impropriamente discendere la sua passione mai dismessa per i Servizi segreti russi.

La serie «Lo scudo e la spada»
In realtà, Putin deve la sua vocazione a un noto film degli anni Sessanta. Se vogliamo, tutto è cominciato con Shchit i Mech, che in italiano vuol dire «Lo scudo e la spada», come l’emblema dei servizi segreti: quattro puntate in onda a partire dal 1965, una storia di avventura e di spionaggio accaduta durante la guerra lungo il confine fra la Germania di Hitler e le Repubbliche sovietiche.

Uno sceneggiato che ebbe un impatto enorme sulla gioventù sovietica. Vladimir Putin ha raccontato più volte di avere deciso d’arruolarsi nei ranghi del Kgb dopo avere seguito tutti gli episodi della serie. La prima volta, lo rimandano indietro. «Ripresentati quando sarai laureato». Lui esegue.

Nonno Spiridon
Quanto al nonno paterno, Spiridon Putin ha avuto un destino decisamente meno ordinario all’interno del regime comunista. Prima cuoco di Lenin nella casa di campagna di Gorki, vicino a Mosca. Poi, al servizio di Stalin. Una vicinanza al vecchio Pcus che è sempre piaciuta poco al presidente russo. Subito dopo essere diventato presidente, Putin si trova a dover affrontare la questione.

«Che penserebbe suo nonno del nipote diventato un presidente
democraticamente eletto?» gli chiede una volta un giornalista.
Putin mostra un certo imbarazzo: «Il fatto che mio nonno abbia
lavorato come cuoco per Stalin non dice assolutamente niente
sulle sue opinioni politiche. Era un altro Paese, un’altra vita, un
altro mondo».

Il maestro di judo e il kuzushi
Il giovane Putin cresce in una città ancora devastata dalla guerra e dalla povertà. Un bambino difficile. Così scatenato che un giorno Vera Dmitrievna Gurevich, la maestra della scuola elementare, andò dal padre per parlargli di quel ragazzo molto intelligente ma con la tendenza a perdersi.

Il colloquio all’evidenza servì. Perché all’improvviso, all’età di undici anni, il piccolo Volodia cambiò. Diventò il più bravo della classe in tedesco, iniziò a fare sport. Un naso rotto lo convinse che non era fatto per la boxe. Fu nelle arti marziali che trovò la vera passione: «Il judo mi ha tolto dalla strada, non so cosa sarebbe stata la mia vita se non avessi conosciuto Anatoly Rakhlin, il mio primo maestro». Con lui ha appreso il kuzushi, movimento che tende a far perdere l’equilibrio fisico e mentale all’avversario per poi rovesciarlo, una tecnica che ha usato anche in politica.

«Ero un piccolo teppista»
Al profilo da ragazzo di strada, cresciuto nelle avversità, ci ha sempre tenuto in modo particolare. Nella sua autobiografia racconta di essere stato espulso dai giovani pionieri, l’organizzazione dei giovanissimi del Pcus, dopo avere insultato il professore di chimica. A differenza di tutti, per punizione, non potrà mai esibire al collo l’ambito fazzoletto rosso e sul petto il
distintivo della faccia di Lenin.

«Non ero un pioniere, ero un piccolo teppista». Una frase che fa parte della costruzione della sua immagine, e lo rende simpatico ai milioni di russi che amano gli uomini venuti dal basso e detestano i prodotti della nomenklatura. Il giovane Putin ama alzare le mani, e diventa un esperto di arti marziali.

Impara il judo con Putin
Molti studiosi si sono dedicati in questi venticinque anni alla ricerca e allo studio delle sue principali influenze culturali, da Kant a Marx eccetera. Le cose, almeno qui, sono un po’ più semplici. Le foto diffuse periodicamente che lo riprendono in kimono, con l’espressione corrucciata, non sono una semplice posa. «Il judo unisce in sé tecniche di combattimento uniche e una filosofia originale e profonda» dice in una intervista recente «che sviluppa le migliori qualità».

Durante un incontro con dei giornalisti giapponesi, si spinge oltre, ricordando che la parola judo significa «via della cedevolezza»: «È una vera e propria filosofia, l’unica alla quale aderisco, perché preferisce l’evoluzione alla rivoluzione, e ci insegna a utilizzare e preferire ciò che già abbiamo». Un elogio ante litteram dell’attuale autarchia russa, sotto forma di disquisizione sportiva.

Nel 2001, anche in Italia, quando tirava un’aria ben diversa da quella di oggi tra Russia ed Europa, uscì il libro. Impara il judo con Putin. In copertina, lui con il kimono bianco e un sorriso gioviale stampato sulla faccia.

Un'idea romantica dello spionaggio
Ma nella sterminata burocrazia sovietica, una volta ottenuta la laurea in giurisprudenza, Putin ci entra comunque a pieno titolo con l’arruolamento nel Kgb. «Una figura senza volto, senza colore» così lo ricordano i suoi superiori. Senz’altro, non un uomo di punta. Sono gli anni di Breznev, quelli della stagnazione. Non succede nulla, lo Stato comincia a scricchiolare sotto il peso della corruzione diffusa.

Il futuro presidente corona il suo sogno, fatto non dalle purghe staliniane, ma da una idea romantica dello spionaggio, come scrisse nella sua autobiografia. Ironia della sorte, ottiene come primo compito il controllo di un gruppo di dissidenti, missione che svolgerà con modi molto più moderati di quelli adottati quando salirà al Cremlino.

«Loro organizzavano qualche manifestazione e chiamavano a partecipare diplomatici e giornalisti stranieri. Noi non potevamo usare la forza per disperderli, non avevamo ordini in tal senso. Così, organizzavamo una contromanifestazione per deporre corone di fiori nello stesso posto e alla stessa ora, convocando i membri regionali del partito e dei sindacati, e quindi facendo transennare la zona. A volte, facevamo suonare anche la banda con i tromboni e gli ottoni. I giornalisti si annoiavano, e la protesta falliva».

Il crollo dell'Urss
Lo mandano a Dresda, nella Germania orientale. È il 1985, Gorbaciov ha appena lanciato la perestrojka, ma laggiù non è ancora arrivata. Non ce n’era traccia. Eppure, la città tedesca diventa quasi un punto di vista privilegiato per assistere a quella che Putin non esita a definire come «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo»: il crollo dell’Urss.

Ma quegli anni prima che venga giù tutto, sono forse decisivi per la formazione del futuro Capo di Stato. Quel Kgb è anche un osservatorio dal quale seguire il malfunzionamento del sistema sovietico, il dilagare del malaffare, la sconfitta imminente nei confronti dell’Occidente, e la crescita di una sfiducia generalizzata della società russa verso il suo stesso mondo. Putin assiste inerme al crollo di tutto quello a cui aveva creduto. Quando cade il muro di Berlino, vive l’umiliazione dell’assalto della folla alla sede di Dresda del suo Kgb.

Spia per sempre
Si dimette subito dopo. Motiverà il suo gesto come una rassegnata presa d’atto, non certo come un pentimento o una presa di distanza morale. «Mi era divenuto ben chiaro che per questo sistema non c’era più futuro».
È venuto giù tutto. Putin e la moglie Ludmila, ex operaia tornitrice in una fabbrica di Kaliningrad, hostess della Aeroflot, sposata nel 1983, tornano a San Pietroburgo in treno, per poter portare con sé anche una lavatrice vecchia di vent’anni, ultimo regalo dei colleghi e dirimpettai della Stasi.

Hanno due figlie. Maria è nata a Leningrado, Ekaterina a Dresda. E hanno un problema. Come guadagnarsi da vivere? Il capofamiglia racconta agli amici di essere rassegnato a fare il tassista. Rifiuta un impiego del Kgb nella periferia di Mosca: non gli pagano la casa, e lui non può permetterselo. Torna all’università, per un dottorato in diritto internazionale. Diventa assistente del rettore, anche per via del suo ruolo di agente Kgb «in riserva». Come ripeteva spesso nelle interviste dei primi tempi, una volta Agente segreto, lo rimani per sempre. Scherzava, ma non troppo.

Le teorie cospiratorie
L’incontro che cambia la sua vita è quello con Anatolij Sobchak, suo ex docente e presidente del Consiglio comunale, destinato ben presto a diventare sindaco. Putin confessa al professore la sua appartenenza al Kgb, ma lui non ne tiene conto. «È solo un mio ex studente», ripeteva. Su questo legame sono cresciute molte teorie più o meno cospiratorie. Secondo alcune, fu il Kgb a manovrare per mettere un suo agente al fianco di uno dei politici in ascesa nella nuova Russia: aveva documenti compromettenti su Sobchak e li fece valere.

Secondo altre, fu lo stesso sindaco a cercare Putin, garantendosi così la protezione del Kgb. Lui, comunque, rimase per cinque anni nella squadra del sindaco della seconda città più grande di Russia, che gli affidò l’organizzazione interna e in buona sostanza anche la gestione degli affari, nominandolo capo dell’ufficio per le relazioni economiche con l’estero. Intanto, Putin si dimette dal Kgb il 20 agosto del 1991. Un giorno dopo il tentato colpo di Stato contro Gorbaciov da parte della vecchia guardia sovietica guidata da un manipolo di suoi colleghi del Kgb. «Capii subito da che parte dovevo stare».

La cricca di San Pietroburgo
In quegli anni si formano i legami e le amicizie che viaggeranno con Putin fino al Cremlino. Nasce la cosiddetta «cricca di San Pietroburgo», definizione forse un po’ esagerata, ma che contiene una verità. Nella capitale baltica, il futuro presidente cementa il suo legame con Nikolaj Patrushev, collega di Kgb e di affinità imperialiste, conosce il giovane avvocato di Sobchak, un certo Dmitrij Medvedev, fa amicizia con Roman Abramovich, aiutandolo a districarsi dalle accuse di aver rubato un treno carico di cisterne di petrolio destinato all’estero. Lavoravano tutti insieme per il sindaco: il futuro premier e presidente Dmitrij Medvedev, il futuro ministro delle Finanze Alexej Kudrin, il capo di Rosneft Igor Sechin, il boss dello sport russo Vitaly Mutko, il capo della Guardia Nazionale Viktor Zolotov, quello dei servizi segreti Sergei Naryshkin.

Poi c’erano i compagni di judo, i fratelli Rotenberg, Arkady e Boris, che sarebbero diventati i «suoi» oligarchi. E non ultimo c’era il proprietario di un ristorante che lui frequentava, Evgenij Prigozhin, detto il cuoco di Putin, miliardario grazie ai catering per il Cremlino e fondatore della Wagner, la milizia mercenaria che interviene nel mondo, dalla Siria alla Libia, in nome e per conto di Mosca.

Con i suoi vecchi amici, si mostrerà quasi sempre magnanimo, come per restare fedele a un patto di gioventù. Tranne che con Prigozhin, che deluso dall’Operazione militare speciale guidata dal «moscovita» ministro della Difesa Sergey Shoigu, marcia su Mosca, tradendo così la fiducia del suo vecchio amico. Che, come noto, non lo perdonerà.

Il mistero sulla ricchezza personale di Putin
In qualche modo, la verticale del potere putiniano nasce lì, all’interno del municipio. Anche per questo, sugli anni san pietroburghesi di Putin permane ancora un velo di mistero, che comprende le origini della sua ricchezza. Secondo una versione mai verificata dei fatti, la fortuna personale di Putin si forma in modo affine a quella di Abramovich. Una volta a capo del Dipartimento degli Affari internazionali, protesta contro gli scaffali vuoti nei negozi e si fa regalare da Eltsin, per intercessione di Sobchak, una fornitura enorme di legname pregiato, petrolio, diverse tonnellate di metalli rari, che rivenderà all’estero per acquistare beni di prima necessità per gli abitanti di San Pietroburgo, tenendo per sé la differenza tra le due operazioni, equivalente a due milioni di dollari.

Ma sono voci non confermate da alcuna prova. La ricchezza di Putin rimarrà sempre un mistero. Anzi, secondo il sito ufficiale del Cremlino, non esiste.

La scalata al Cremlino
Nel 1996, Putin perde nuovamente il lavoro. San Pietroburgo è una città corrotta e in mano alla criminalità organizzata. Vladimir Yakovlev, il vice di Sobchak, vince le elezioni amministrative con una campagna molto aggressiva, che non gli verrà mai perdonata dal futuro presidente. Ma i contatti stabiliti durante quei cinque anni lo portano ancora più in alto. Lo portano al Cremlino, tramite Pavel Borodin, capo della Tesoreria di Boris Eltsin.

Putin ne aveva aiutato la figlia, affetta da una grave malattia, quando era studentessa a San Pietroburgo, cercando per lei dei medici di qualità. Borodin si sdebita chiamando l’amico nel suo ufficio, che gestisce le proprietà personali di Eltsin, e affidandogli la cura dei possedimenti esteri. Per ovvie ragioni, è un lavoro che lo mette in contatto con «la Famiglia».

La prima apparizione in tv
La sua ascesa diventa fulminea. Gli bastano meno di due anni per imparare i codici di comportamento non scritti del Cremlino. Poche parole, sempre con la soluzione pronta in tasca. Nel 1998, Eltsin lo nomina capo del Fsb, erede del Kgb. Lui mostra totale lealtà al capo. E anche molto zelo. Quando il Procuratore federale Yurij Skuratov apre un’indagine per corruzione sulla famiglia Eltsin, un video andò in onda improvvisamente su tutte le televisioni russe. Skuratov era senza veli, in azione con due acrobatiche prostitute. Era il più classico dei kompromat nell’arsenale della Lubjanka.

Putin appare per la prima volta in televisione, spiegando che non si tratta di un falso. Dimissioni immediate di Skuratov, fine dell’indagine. Ma fare il primo ministro, quello è il salto più grande, davvero un salto potenzialmente mortale. Di chi è stata l’idea? In molti rivendicarono la trovata di aver messo al potere quell’oscuro funzionario che aveva come unico compito quello di garantire al presidente una onorevole ritirata al riparo delle inchieste giudiziarie sulla corruzione, e al suo clan di continuare a gestire il potere.

L'«inventore» di Putin
Ma l’unico che ha sempre potuto vantare una primogenitura era Valentin Yumashev. Dopo averne discusso soltanto con Anatolij Chubais, il plenipotenziario economico che all’inizio degli anni ’90 consegnò le più grandi aziende pubbliche ai privati, creando gli oligarchi, fu lui a convincere il futuro suocero a scegliere Putin come proprio successore.

In una rara intervista concessa alla Bbc nel 2019, altri tempi ormai, se ne vantò con discrezione, raccontando come erano andate le cose. Eltsin aveva una sua rosa di candidati, tra i quali spiccava Boris Nemtsov, il liberale che il 27 febbraio 2015 verrà assassinato mentre cammina sul ponte del Cremlino, forse il delitto politico russo più misconosciuto e importante.

Ne parlò con Yumashev, l’ex giornalista, capo del suo staff e in seguito marito di sua figlia Tatiana: erano i suoi consiglieri occulti fin dal 1996, quando diressero una campagna elettorale che sembrava destinata a fallire contro i comunisti di Zyuganov e invece si trasformò in un trionfo grazie ai finanziamenti di quelli che poi sarebbero diventati oligarchi. «Invece io gli dissi che Putin sarebbe stato perfetto, perché era chiaro che fosse pronto per incarichi importanti». Eltsin annuì. La storia della Russia stava per cambiare.

venerdì 11 aprile 2025

Stipendi e pensioni a rischio? Il conto salato dei Dazi USA sull’Italia

@ - Il ritorno dei dazi USA potrebbe colpire duramente l’economia italiana, influenzando stipendi, occupazione e sostenibilità delle pensioni.


L’imposizione dei dazi commerciali da parte degli Stati Uniti sotto la nuova amministrazione Trump sta sollevando interrogativi e preoccupazioni in tutto il mondo, soprattutto in Europa.

Le politiche protezionistiche già adottate durante il primo mandato del presidente avevano mostrato chiare ripercussioni sugli equilibri commerciali internazionali. In questo contesto, l’effetto dazi su stipendi e pensioni in Italia merita un’analisi approfondita, considerando il ruolo centrale che l’interscambio commerciale con gli USA ricopre per molte imprese italiane.

Dazi americano: a volte ritornano
Il ritorno alla Casa Bianca di Trump è stato segnato immediatamente da alcune misure drastiche. Tra queste l’imposizione di dazi all’Europa e resto del Mondo, con particolare accanimento sulla Cina (dazi al 145%).

Le tensioni commerciali che ne stanno derivando con gli Stati Uniti potrebbero, quindi, innescare una nuova stagione di incertezza per il Made in Italy.

I dazi, aumentando artificialmente il costo dei prodotti europei sul mercato americano, rischiano di ridurre la competitività delle imprese italiane. E poiché l’export rappresenta una quota rilevante del PIL nazionale, ogni ostacolo al commercio estero può avere effetti a catena sull’economia reale, riflettendosi in ultima analisi anche su stipendi e pensioni.

Settori esposti e impatto sull’occupazione
Tra i settori più esposti al rischio dazi ci sono la meccanica di precisione, l’industria automobilistica, il comparto agroalimentare e la moda. In molti casi, le aziende italiane esportano verso gli Stati Uniti una parte significativa della loro produzione. L’introduzione di nuovi dazi renderebbe i prodotti italiani meno competitivi, causando una probabile contrazione della domanda.

Una riduzione degli ordinativi e del fatturato potrebbe portare inevitabilmente a tagli del personale, blocco delle assunzioni e riduzione degli investimenti.

Questo tipo di dinamica ha un effetto diretto sugli stipendi, specialmente per i lavoratori impiegati nei settori coinvolti. Potrebbero verificarsi riduzioni degli straordinari, del premio produzione e, nei casi peggiori, licenziamenti. Il mercato del lavoro italiano, già fragile in molte aree, ne potrebbe risentire pesantemente.

Effetto dazi su stipendi e pensioni: il meccanismo indiretto
L’impatto delle misure protezionistiche americane non si limiterebbe all’ambito occupazionale. Anche il sistema pensionistico italiano potrebbe subire contraccolpi. Le pensioni pubbliche in Italia sono finanziate in gran parte dai contributi versati dai lavoratori attivi. Se il numero degli occupati diminuisce, si riduce anche la massa contributiva disponibile. Questo squilibrio tra entrate e uscite potrebbe generare pressioni sul sistema previdenziale, già messo a dura prova dall’invecchiamento della popolazione.

Inoltre, minori entrate fiscali da parte delle imprese e dei lavoratori colpiti dalla crisi possono determinare un rallentamento della crescita economica generale. Questo indebolimento può spingere il governo a rivedere al ribasso gli adeguamenti delle pensioni all’inflazione o a introdurre misure di contenimento della spesa pubblica. Il risultato è un indebolimento del potere d’acquisto per milioni di pensionati.

Le ripercussioni sul potere d’acquisto di stipendi e pensioni
L’effetto dazi su stipendi e pensioni va inoltre valutato alla luce dell’inflazione importata.

Se l’Europa decidesse di rispondere con controdazi, potrebbero aumentare i costi di beni importati dagli Stati Uniti, come tecnologia, componenti industriali o materie prime. Tali aumenti verrebbero scaricati su consumatori e imprese, con il rischio di un ulteriore aumento dell’inflazione.

In un contesto inflattivo, i lavoratori subirebbero una perdita del potere d’acquisto se gli stipendi non venissero adeguatamente aggiornati. Anche i pensionati, specie quelli con assegni minimi o medi, vedrebbero ridursi la capacità di far fronte alle spese quotidiane. La spirale negativa potrebbe incidere sui consumi interni, rallentando ulteriormente la crescita.

Strategie di contenimento del rischio
Per mitigare l’effetto dazi su stipendi e pensioni, le istituzioni europee e italiane potrebbero adottare strategie di prevenzione e compensazione. In primo luogo, una diplomazia commerciale efficace potrebbe contenere l’escalation delle tensioni, evitando il ricorso a misure protezionistiche eccessive. Si attende l’incontro tra la premier Meloni e il presidente Trump. Allo stesso tempo, investire in nuovi mercati esteri potrebbe ridurre la dipendenza dal mercato americano.

A livello nazionale, il governo italiano dovrebbe monitorare da vicino i settori più a rischio, prevedendo strumenti di sostegno per le imprese esportatrici e per i lavoratori coinvolti. La protezione dei livelli occupazionali e della tenuta del sistema pensionistico richiede politiche attive del lavoro, incentivi fiscali mirati e, se necessario, misure di welfare temporanee.

Effetto dazi si stipendi e pensioni: un effetto da non sottovalutare
Anche se la reintroduzione dei dazi all’Europa da parte degli Stati Uniti non è ancora realtà (Trump ha stabilito una proroga di 90 giorni), il solo annuncio di tale possibilità rappresenta un fattore di incertezza economica. L’effetto dazi su stipendi e pensioni non è un’ipotesi remota, ma una possibilità concreta che merita attenzione da parte di imprese, lavoratori, istituzioni e analisti economici.

In un mondo sempre più interconnesso, le decisioni commerciali di una grande potenza possono avere ripercussioni trasversali e profonde. L’Italia, con il suo tessuto produttivo fortemente orientato all’export, non può permettersi di sottovalutare questi scenari. Prepararsi a gestire le conseguenze dei dazi significa tutelare non solo la competitività delle imprese, ma anche il benessere di milioni di cittadini.

Riassumendo
  • I dazi USA colpiscono l’export italiano, riducendo la competitività delle imprese.
  • Settori come moda, agroalimentare e meccanica rischiano contrazioni e perdita di occupazione.
  • Meno lavoro significa minori stipendi e contributi per il sistema pensionistico.
  • Le pensioni possono subire tagli o mancati adeguamenti all’inflazione.
  • Controdazi europei possono aumentare l’inflazione e ridurre il potere d’acquisto.
  • Servono strategie politiche per proteggere occupazione, stipendi e sistema previdenziale.

martedì 8 aprile 2025

Medvedev lancia un grave monito: l’Occidente ha condotto il mondo sull’orlo di una guerra nucleare. Sempre più Paesi si doteranno di armi.

@ - Negli ultimi anni, il panorama geopolitico internazionale ha assistito a un’escalation di tensioni tra le grandi potenze mondiali, con la guerra sempre più vicina. In un contesto segnato da guerre regionali, competizione economica e sfide alla sicurezza globale, cresce la preoccupazione per una nuova corsa agli armamenti.

Il ritorno della minaccia nucleare
Le armi nucleari sono tornate a essere una delle principali fonti di instabilità nel mondo. Dopo decenni di trattative e accordi sul disarmo nucleare, molti osservatori notano come l’attuale crisi globale stia riportando l’equilibrio strategico a una pericolosa fase di incertezza.

Alcuni governi ritengono che le politiche occidentali, in particolare l’espansione di alleanze militari e l’intervento in zone di conflitto, stiano alimentando un clima di sfiducia. Di conseguenza, cresce l’interesse di vari Paesi verso il potenziamento dei propri arsenali difensivi, incluse le armi nucleari.

Le dichiarazioni di Medvedev: un segnale d’allarme
In questo contesto, le parole di Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, hanno suscitato grande attenzione. In un post pubblicato su Telegram, Medvedev ha affermato: “Sempre più Paesi nel mondo acquisiranno armi nucleari” perché “l’Occidente ha spinto il mondo sull’orlo della Terza guerra mondiale”.

Secondo l’ex presidente russo, anche un’eventuale conclusione della guerra in Ucraina non cambierebbe le prospettive sul lungo termine:Anche se il conflitto attorno alla cosiddetta 'Ucraina' fosse completamente concluso, il disarmo nucleare nei prossimi decenni sarà impossibile”.

Medvedev aggiunge inoltre cheverranno create armi sempre più distruttive”, sottolineando la gravità del momento. E lancia un altro duro monito rivolto all’Europa:Ha iniziato a mettere a dura prova il suo scarso potenziale strategicoe non riconosce che la minaccia di un conflitto nucleare abbia raggiunto il suo livello più alto”.

Queste dichiarazioni delineano uno scenario di grande preoccupazione. La crescente sfiducia tra blocchi geopolitici e la ripresa della corsa agli armamenti nucleari pongono una seria minaccia alla stabilità internazionale. Il rischio che il mondo sia effettivamente sull’orlo di un conflitto globale non appare più così remoto.

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mercoledì 2 aprile 2025

I piani concreti delle imprese italiane per l’Africa

@Finalmente ci occupiamo di politica internazionale. Grazie a Trump parliamo di Ucraina e di difesa, di Medio Oriente, qualche volta di Cina e di Groenlandia. E l’Africa? A che punto è il Piano Mattei?


Le materie prime per ora nascoste sotto i ghiacci dell’Artico sono quelle per cui si combatte nel cuore dell’Africa. Sono i materiali critici necessari per le transizioni energetica, digitale ed ambientale. Il Piano Mattei mantiene viva l’attenzione verso l’Africa e il 27 marzo la “struttura di missione” di Palazzo Chigi per la sua attuazione ha promosso un’iniziativa con la Commissione Europea. Dinnanzi ad un pubblico imprenditoriale interessato a comprendere le opportunità di un piano ancora poco conosciuto sono stati presentati progetti concreti. Un’affollata assemblea, per la prima volta, ha potuto ascoltare, e soprattutto incontrare, i tanti soggetti, pubblici e privati, che sulla spinta del Piano Mattei si occupano sempre di più di Africa. Si va dagli Amministratori Delegati di Cassa Depositi e Prestiti, Scannapieco, e di Sace, Ricci, a imprenditori che in Africa da decenni hanno costruito e trovato opportunità, come Salini, a chi, come Ortona, alla Presidenza del Consiglio mette a sistema tanti attori finora non coordinati. Soprattutto, è stata importante la partecipazione attiva delle istituzioni internazionali, dal nuovo esecutivo europeo all’African Development Bank, e dei governi interessati, dal Ministro dei Trasporti dello Zambia a quello degli Esteri della Tanzania. Al centro dell’attenzione iniziative in ambito energetico, agricolo e digitale. Progetti come Elmed con Terna protagonista, anche grazie a fondi europei, nella costruzione della prima interconnessione a corrente continua tra Italia e Tunisia. Iniziative come quella affianca al Piano Mattei, quattro Paesi dell’Africa orientale ed imprenditori come Andrea Illy per aumentare la redditività delle coltivazioni di caffè. Opere come quelle presentate dall’Ad di Sparkle Enrico Bagnasco (da poco alla guida di Confindustria Assafrica e Mediterraneo) per la connessione digitale tra Africa ed Europa.

Ma soprattutto si è parlato di infrastrutture come il “Corridoio di Lobito”, il collegamento ferroviario che collegherà la costa angolana allo Zambia per il trasporto di materie prime critiche e di prodotti agricoli. Al Vertice G7 in Puglia l’Italia ha messo a disposizione di quest’opera, considerata il volano per una rivoluzione economica, 320 milioni di dollari che si aggiungono a quelli mobilitati dall’iniziativa della Ue Global Gateway. Piano Mattei e Global Gateway procedono in sinergia, entrambe le iniziative, si è detto, sono passate da una fase di “start-up” ad una di “scale-up”. Gli imprenditori convenuti a Roma possono adesso mettersi in gioco col progetto che consentirà di ridurre i tempi di trasporto dalle miniere ai porti dai ben 45 giorni attuali a una settimana. Ue e governo italiano si sono presentati affiancati non solo dalle banche regionali di sviluppo, ma anche dalla PGII (Partnership for Global Infrastructure and Investment) l’iniziativa lanciata dagli Usa in ambito G7 con finalità simili alla Global Gateway europea anche, ma non solo, per rispondere alla “via della seta” promossa da Pechino. È stato importante che a Roma la coordinatrice americana della PGII Helaina Matza abbia confermato il sostegno dell’Amministrazione Trump a questa iniziativa nata con Biden.

Infine, è significativa l’intenzione, annunciata dal Ministro degli Esteri della Tanzania, Mahmoud Thabit Kombo, dell’estensione del corridoio Lobito fino alle coste della Tanzania. Il progetto diventa così un sistema di attraversamento dell’Africa, collegando via terra i due principali bacini del mondo, l’Atlantico (in Angola, a Lobito) e l’Indo-Pacifico. Potrebbero così anche rafforzarsi i collegamenti con India ed Estremo Oriente in una visione Indo-Mediterranea da promuovere soprattutto in tempi di difficoltà nei rapporti con i nostri tradizionali partner commerciali, e ricordando che gran parte dell’Africa è bagnata dall’Oceano Indiano e dal Mare Mediterraneo. Tutto ciò mettendo anche a sistema l’iniziativa di connettività Imec (India - Middle East – Europe Corridor), che potrebbe avere Trieste come terminale. Ecco l’Africa, continente di sfide e speranza.

lunedì 24 marzo 2025

Alla Camera processo a "Mani pulite": «Craxi non andava lasciato solo»

@ - Alla Camera processo a "Mani pulite": «Craxi non andava lasciato solo» Storia di Angelo Picariello

Alla Camera processo a "Mani pulite": 
«Craxi non andava lasciato solo»© Fornito da Avvenire

«Ci siamo prestati, dobbiamo ammetterlo oggi, a un’operazione che non aveva niente a che vedere con la terzietà e con l’indipendenza della magistratura. I magistrati ci lasciavano la stanza libera per andare a copiare dei verbali che erano secretati, e nessuno mi ha mai perseguito per questo». Il deputato forzista Giorgiò Mulè parla di Manipulite e da ex giornalista fa autocritica. «Dovremmo vergognarci», anzi dice. Ex giornalista, peraltro del gruppo Fininvest, che – giova ricordarlo – non fu da meno degli altri gruppi editoriali nel fare da “grancassa” all’inchiesta.

Nella sala della Regina di Montecitorio si presenta il libro di Peppino Gargani intervistato da Daniele Morgera (giornalista del Gr Rai) Le mani sulla storia. Come i magistrati hanno provato a (ri)fare l'Italia, appena uscito per Rubbettino, con la prefazione di Andrea Covotta, direttore di Rai Quirinale. Una operazione «anomala», una «forzatura», la definisce, portata avanti dalla Procura milanese che ha messo sul banco degli imputati un intero sistema politico, scrivendo la parola fine per la vita dei partiti protagonisti di quasi messo secolo di storia repubblicana.

Moderato da Giuseppe Sangiorgi (che è stato giornalista del quotidiano della Dc Il Popolo e portavoce storico di Ciriaco De Mita), c’è un ricco parterre: oltre a Mulè, che fa un po’ da padrone di casa da vicepresidente della Camera, c’è Anna Finocchiaro (presidente di Italiadecide), Fabrizio Cicchitto (presidente della Fondazione Riformismo & Libertà), il magistrato Nello Rossi (direttore di Questione Giustizia), l’avvocato Valerio Spigarelli, il giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese e il giornalista Alessandro Barbano.

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Gargani, oggi presidente della associazione degli ex parlamentari, ha dedicato una vita al tema Giustizia. Nel libro, stimolato da Morgera, tira fuori anche particolari inediti. La convocazione che ebbe al tempo, da parte del pool milanese, da presidente della Commissione Giustizia. L’ingresso da una porta secondaria, il tentativo di avviare una sorta di trattativa con i magistrati, che però non ebbe alcun esito, né poteva averlo in una fase di grande debolezza della politica e di grande popolarità dei magistrati inquirenti. Gargani propone un Csm che va equilibrato nei numeri, con metà dei membri togati e metà “laici”.

Sabino Cassese considera questo un punto chiave. Perché quelli che anche lui indica come eccessi di Manipulite, venivano da lontano: «I giudici che si attribuiscono un orientamento della società; il diritto che viene creato dall’ordine giudiziario», con il Parlamento legislatore «che resta sullo sfondo. Questo – rimarca Cassese – ha creato l’idea di magistrati militanti. Una ideologia dei giudici, limitata peraltro al settore penale dimenticando il civile e i sei milioni di cause pendenti». Si tratterebbe invece di «riscoprire la funzione passiva della magistratura, senza che diventi un attore politico».

Più cauta, ma in parte convergente, anche Anna Finocchiaro, che – con la sua esperienza di magistrato – avanzò anche lei, a nome del Pci/Pds, delle proposte miranti a un uso «più misurato» della custodia cautelare. Concorda che «l’azione penale che ebbe i suoi eccessi», di fronte alla «timidezza» di una politica in crisi. «Era caduto il muro di Berlino, si stavano disegnando nuovi equilibri», ricorda Finocchiaro, che conviene con Gargani quando accusa: «I magistrati devono giudicare il fatto, non i fenomeni». Ma, per Finocchiaro, «ci voleva che del fenomeno qualcuno si occupasse, e invece nessuno volle farlo, un po’ per debolezza, un po’ nella speranza di trarre vantaggio dalla situazione».

Rossi, da magistrato, non si dice contrario all'immunità parlamentare, ma sostiene che l'istituto ha avuto un uso distorto, che ha portato a metterla in discussione.​ Gargani scrive che alle parole di Bettino Craxi in Parlamento «ci saremmo dovuti alzare tutti in piedi, invece ci siamo arresi». La politica si scoprì debole. De Mita a Sangiorgi diede questa spiegazione: «Quelli dopo di noi sono stati allevati un po’ in batteria, non avevano la forza di reagire». Ma da ex socialista craxiano Cicchitto non si rassegna: «Noi siamo qui per evitare che la storia la scrivano i vincitori».